Tra i tanti elementi architettonici che compongono la chiesa, il primo, a considerare l’architettura dall’esterno, è il sagrato.
Come dice il nome, luogo dedicato alla chiesa, ma aperto alla città. Va definito: altro è una piazza o uno spiazzo, altro un sagrato.
Basti considerare la differenza tra la piazza di San Giovanni in Laterano a Roma e piazza San Pietro in Vaticano.
Il primo è uno spiazzo relativamente anonimo, che non valorizza la presenza della facciata della chiesa, che è pur luogo eminente, fu sede del papa e che resta sede del vicariato della città. Ma non v’è un’elaborazione architettonica: è solo uno spiazzo aperto in cui si raccolgono a volte assemblee moltitudinarie, e in cui prevale l’incombere del traffico automobilistico. La grande piazza minimizza lo spazio previo di pertinenza della chiesa, lo cancella.
Piazza San Pietro, di contro, ha un disegno definito: ha un carattere suo di piazza che acquista sapore sacro in relazione con la vicina basilica. Ma la piazza di per sé ha un valore chiaro e netto. Il colonnato del Bernini lo esalta e genera un raccordo decisamente incardinato sulla basilica. Ma anche senza il colonnato la piazza avrebbe un suo disegno: la pianta a doppio lobo circolare col tappeto mediano in asse con la facciata della basilica. La presenza dell’obelisco e della fontana nei due fuochi della figura geometrica esaltano il disegno della piazza.
Il sagrato storico è spesso sopraelevato di qualche gradino rispetto alla piazza antistante.
Vi si svolgevano sacre rappresentazioni, vi si trovavano le sepolture e nelle chiese nordiche ancora vi sono aree circostanti le chiese in cui vi sono sepolture; la principale cerimonia che vi ha luogo è quella dell’accensione del cero pasquale. Nell’occasione di celebrazioni di matrimoni, funerali, cresime e battesimi, diviene luogo privilegiato per dialoghi tra fedeli. Del resto questo avviene ovviamente in relazione a qualsiasi celebrazione.
Ma qui poniamo l’accento sul fatto che il sagrato è spazio previo e coordinato, sul piano visivo e fruitivo fa parte della chiesa e della città allo stesso tempo.
Soprattutto il sagrato segna la prima soglia per chi si avvicina al luogo di culto. Ergo, la sua presenza, i suoi “confini” vanno indicati in qualche modo. Ma evitando di proporlo come luogo chiuso, ovvero esclusivo (come purtroppo oggi avviene col recentissimo sagrato della chiesa Dives in Misericordia eretta a Roma nell’occasione del Grande Giubileo del 2000, inaugurata nel 2004, su progetto di Richard Meier).
Il sagrato si propone come luogo sacro ma aperto. Aperto alle persone: accade spesso che sagrati contemporanei divengano parcheggi per chi si reca alle celebrazioni in automobile o per chi porta al centro parrocchiale i ragazzi. La presenza di mezzi di trasporto parcheggiati toglie il valore di segno al luogo.
Vi sono chiese storiche prive di sagrato: dal marciapiedi si accede direttamente alla chiesa. Si tratta di condizioni che vanno evitate o vanno ripensate. Precisamente a causa dell’invadenza dei mezzi di trasporto meccanici, è importante trovare ovunque a fronte della chiesa, sia essa storica o contemporanea, un luogo, piccolo o grande che sia, che “dica” del passaggio.
Un esempio significativo di sagrato di ridotte dimensioni, al punto da confondersi con pronao o col nartece, è quello della chiesa eretta a Desio alla fine degli anni ’90 del ‘900, su progetto di Gabetti e Isola.
Qui v’è una struttura a campanile a pianta tondeggiante e troneggiante, eminente a fronte della chiesa, delimitata da un’ampia corona di colonne. Uno spazio che è interno ed esterno allo stesso tempo. Un sagratello. Significativo: la sua presenza, grazie al troneggiare della struttura che regge le campane e che funge da torretta-simbolo del luogo di culto, irraggia sull’intorno tanto da far sì che la piazza tutta sia percepita come funzionale al luogo per il culto. È uno spazio che si presenta come calamita: attivatore di un campo di energia centripeto.
Vi sono altre condizioni, come la chiesa di Baruccana progettata da Gregotti International, in cui il sagrato è un luogo attraversato da percorsi che stabiliscono una prospettiva focalizzata nel luogo della chiesa. Qui lo spazio è dinamico, segnato da cammini rettilinei che riconducono all’ingresso in chiesa.
Nel santuario di San Pio a San Giovanni Rotondo, progettato da Renzo Piano, il sagrato è probabilmente la parte meglio riuscita: la differenza di livello rispetto alla vallata dalla quale si arriva al sito ha offerto l’occasione per disegnare diversi percorsi di accesso tra i quali il più significativo è la salita porticata che porta al piano del sagrato da parte opposta a quella ove sorge la chiesa. Il campanile “lineare” che delimita il sagrato verso valle diviene luogo di raccordo tra il punto di arrivo della salita e la chiesa. Mentre sul lato opposto, verso monte, la spianata in leggera discesa è accompagnata da alcuni ulivi e da una fontana a cascatelle, dal forte valore simbolico. Nel complesso un sagrato di grande valore segnico, accogliente, sereno, invitante.
Nella storia vi sono tanti sagrati raccordati a un portico, a volte un quadriportico che lo definisce totalmente. L’antico San Pietro in Vaticano era dotato di un sagrato di tal fatta, come lo è tutt’ora Sant’Ambrogio a Milano. Il quadriportico è struttura che può dare l’idea di chiusura. Ma in realtà essendo definito da un colonnato è per solito “trasparente”. Anche se in antichità forse la sua struttura “separante” aveva qualcosa a che vedere col fatto che nei primi secoli ancora il cristianesimo si sentiva “separato” dal resto della società. Per converso, nell’epoca tardo antica e nelle epoche successive l’affermarsi del cristianesimo come fattore portante di tutto l’ambiente culturale e politico fa sì che non si percepisca più come necessaria una definizione così greve del sagrato: questa almeno l’opinione dello storico dell’architettura Sandro Benedetti. Il quale peraltro ha progettato negli anni ’90 alcune chiese dotate di quadriportico, proprio per il valore segnico di questa struttura.
Il portico, nelle sue diverse declinazioni e specializzazioni (protiro, pronao, nartece) rappresenta un grado più avanzato della funzione di separazione-congiunzione attivata dal sagrato tra città e chiesa. Nella tradizione i catecumeni stavano nel nartece durante la prima parte della Messa (liturgia della parola) e non prendevano parte alla liturgia eucaristica. In tal modo questo spazio previo era rivestito di un forte valore semantico.
Oggi la distanza tra “città” delle attività profane e chiesa è tornata a essere cospicua, per cui la successione di sagrato-pronao (nartece, portico o protiro che sia), diviene ancora più rilavante di quanto non fosse in passato, così che il percorso di avvicinamento abbia la capacità di invitare alla riflessione sulla rilevanza dei passi compiuti.
E assai rilevante al riguardo è la variazione luministica che avviene nel passaggio attraverso il porticato-nartece. Un abbassarsi dei valori luministici rispetto allo spazio esterno equivale all’affermazione del silenzio e del raccoglimento: laddove la luce piena implica spazio pubblico, “pubblicità”, le relazioni che si attivano nel volgersi alla chiesa sono improntate bensì all’essere nella comunità, ma nella coscienza condivisa della comune condizione di figli di un unico Padre e pertanto fratelli. Un condizione che richiede uno stacco di ripensamento rispetto al luogo della onnipresente “pubblicità” (che oggi assume non solo il senso dell’esser pubblico, ma soprattutto il senso della propaganda), tanto maggiore oggi quando la piazza è divenuta onnicomprensiva e priva di confini nello spazio virtuale telematico.
Un porticato di particolare valore segnico si ritrova nella chiesa Beato Odorico da Pordenone, a Pordenone, progettata da Mario Botta e realizzata a metà degli anni ’90. Le grandi colonne rotonde reggono una travatura quadrangolare che si raccorda col corpo della chiesa a tronco conico. Lo spiazzo racchiuso dal colonnato è liberamente accessibile e totalmente trasparente, e tuttavia separato e diverso dallo spazio circostante. Al suo interno una traccia sinusiodale raccoglie l’acqua che all’interno della chiesa sgorga nello spazio battesimale, in tal modo raccordando sagrato e interno della chiesa.
Terzo elemento rilevante è la facciata. Vero e proprio costrutto architettonico dotato di una possibile indipendenza rispetto al resto dell’organismo della fabbrica. La facciata è composta da tutti gli elementi che la chiesa presenta al proprio esterno e che esprimono in qualche modo quanto la chiesa contiene. E tali elementi sono aggruppati nel muro che segna il “di qua” e il “di là” dello spazio ecclesiastico.
Vi sono chiese, come San Francesco al Fopponino a Milano (opera di Gio Ponti) in cui la facciata è veropropriamente organismo a sé stante. Anche la concattedrale di Taranto, di Gio Ponti ha un elemento mediano che si eleva come una facciata superiore a sé stante, che diviene segno della presenza della chiesa, tanto quanto lo potrebbe essere un campanile.
Vi sono architetti che hanno dato un valore assoluto, predominante alla facciata, tra questi Augusto Romano Burelli che a Gemona ha costruito la chiesa di S. Lucia tutta raccolta attorno alla sua facciata: un importante muro che prospetta sulla piazza, nel cui punto mediano avanza un’absidiola che raccoglie lo spazio dell’altare. Talché tutta la chiesa risulta “raccontata” nella sua facciata. E chi vi accede passa dalle porte laterali per descrivere un percorso semicircolare che lo porta a trovarsi a fronte dell’altare.
Uno schema identico ha seguito, più o meno negli stessi anni, Justus Dahinden per la chiesa San Massimiliano Kolbe di Varese: ma qui non è una vera e propria facciata, in quanto Dahinden privilegia lo spazio introverso. Un’architettura a semisfera bianca tagliata da una parete in cemento modulato per evidenziare l’abside che resta ben visibile a chi accede al sagratello ai lati del quale si trovano gli accessi.
La facciata di per sé non è necessaria. Vi sono alcuni, come Gabetti e Isola che decisamente la evitano in tutte le loro chiese, privilegiando il volume della chiesa come elemento significativo nel suo complesso articolato negli spazi previ e nei percorsi.
Ma la porta è sempre rilevante, sia che vi sia, sia che non vi sia una facciata. Inscritta nel portale ogivale nelle grandi chiese gotiche, pur ove sia meno augusta nella sua elaborazione, mantiene il valore di soglia principale. A evidenziarne il valore concorre tutto lo spazio previo e tutto quanto la circonda. Sia porta principale o secondaria, sia inscritta in una facciata o no, la porta segna la soglia principale. Non è un elemento in sé: la porta ha un valore che è sempre determinato dal complesso di elementi che la circondano: e ovviamente può essere esaltata da un’elaborazione artistica o artigianale particolare, dalla presenza di una struttura circostante rilevante.
Ma la porta è il luogo cui tutto lo spazio previo deve ricondurre, attraverso il linguaggio dei segni, degli accenni, degli inviti, dei rimandi, della prospettiva.
V’è una chiesa a Monaco di Baviera, in cui gli architetti hanno scelto di fare di tutta la facciata un’enorme porta semitrasparente e apribile. Herz Jesu Kirche di Allman Sattler Wappner (1997-2000). V’è naturalmente una porta più piccola che si usa correntemente, ma tutta la facciata può essere aperta: è un segno, come è un segno il fatto che la trama strutturale in acciaio che regge i vetri reca incisi i vangeli agli incroci: nessuno li legge, ma si sa che ci sono. Sono segni. Come lo sono le stature retti dai pinnacoli delle chiese gotiche: nessuno le riesce veramente a vedere, ma si sa che ci sono. Sono un segno. Lo stesso dicasi per moltissime vetrate istoriate: le immagini non si vedono veramente, ma si sa che ci sono. Sono una presenza che diviene segno.
La porta è il segno al quale tutto il resto dello spazio previo riconduce. Va pensata in modo coordinato con tutto l’insieme del percorso di accesso, come la cesura fondamentale , il momento portante, il luogo perno di tale processo di accesso.
Intesa come segno, luogo, limite significativo, la porta non è paragonabile alla linea che delimita una figura geometrica: nella ricerca della precisione geometrica, di quest’ultima ha senso chiedere se lo spessore della linea stessa faccia parte della superficie interna o esterna alla figura stessa. La porta, il limite che demarca l’ingresso nello spazio per il culto, ha una presenza cospicua: il suo valore di limite viene esperito attraverso il discreto periodo in cui avviene il passaggio dal mondo esterno al mondo interno.
La persona che incede vede la chiesa intera come espressione di un luogo distinto dagli altri: non legato a funzionalità utilitaristiche, bensì votato all’intimità spirituale, del singolo e della comunità.
Se la persona è totalmente estranea alla chiesa, di questa potrà apprezzare il valore storico, artistico, o comunque di differenza e alterità rispetto a quanto la circonda. Nell’avvicinarsi, i diversi segni che le si presentano, saranno coordinati in modo tale da completare tale percezione.
E si parla di segni in senso lato: non solo visivi, ma anche uditivi (v. il suono delle campane, la melodia delle preghiere cantate in specifiche occasioni), olfattivi (v. i profumi di incenso o di fiori), termici (la massa delle murature degli edifici storici garantisce di per sé un controllo termico interno che offre frescure nel periodo estivo, tepore in quello invernale, ed è auspicabile che usando i vari sistemi per il controllo termico offerti dalla bioedilizia anche gli edifici di culto attuali garantiscano simili prestazioni).
Il passaggio nella porta non dev’essere “semplice”, perché la semplicità lineare tende a togliere valore al passaggio stesso.
Se per esempio il passaggio implica un momento di particolare oscurità, nell’accedere nello spazio interiore, seppure più oscuro di quello esterno, si esperirà il senso della novità, dell’allargarsi dell’orizzonte, del recupero della luce e della sua focalizzazione sui poli rilevanti sul piano liturgico.
In alcune circostanze l’effetto può essere ottenuto con porte poste in senso ortogonale o comunque angolato rispetto alla direzione di avvicinamento, talché avvenga un cambio di direzione, una rotazione che porti chi incede ad acquisire differenti viste prospettiche, delle quali quella che si aprirà all’interno sarà particolarmente libera e felice. Ovviamente questa soluzione avviene in modo necessario ove l’ingresso è posto non in asse con l’altare, ovvero col centro focale della chiesa, bensì là dove è posto lateralmente, cosicché chi entra necessariamente deve compiere una rotazione.
In ogni caso la porta non è un semplice elemento separatore, bensì è inteso come momento cardine di una sequenza che nel suo complesso dà significato all’insieme del percorso.