Gli esperti di marketing la chiamano “sensorial branding”, cioè “costruzione sensoriale del marchio”, ed è l’ultima frontiera della pubblicità. Basata sul presupposto che quanti più sono i sensi coinvolti, tanto più è intensa l’esperienza legata al prodotto da vendere, è una strategia che studia come coinvolgere, oltre al consueto canale della vista, i sensi dell’udito, dell’olfatto, del gusto e del tatto, per imprimere a fondo gli articoli nella memoria dei clienti, e spingerli così all’acquisto.
Nascono così le musichette “aziendali” che non solo accolgono nei locali dell’impresa, ma che riempiono le attese telefoniche o salutano i dipendenti all’accensione dei loro computer. Oppure compaiono marche di carta igienica che riescono a far aumentare gli incassi, semplicemente vendendo il… materiale senza l’involucro di plastica (così che i compratori possano valutare con le loro mani morbidezza e resistenza del prodotto).
Anche se questa è una tecnica che i panettieri usano inconsapevolmente da sempre (il buon odore del pane appena sfornato favorisce la secrezione delle ghiandole salivari e, di conseguenza, spinge i passanti all’acquisto), sembra che oggi il mercato globale abbia scoperto che utilizzando al meglio tutti e cinque i sensi si può vendere molto di più.
E nella Chiesa e nella sua esperienza celebrativa che posto hanno i cinque sensi?
San Tommaso affermava che nulla può essere nell’intelletto se prima non è stato nei sensi. Quindi anche la nostra fede in Dio deve essere passata attraverso la nostra esperienza della realtà, deve essere radicata nel nostro accostamento alle persone e alle cose mediante i sensi.
Ora, se la nostra vita di credenti ha le sue profonde radici nelle nostre esperienze sensoriali, noi cristiani possiamo legittimamente chiederci quanto sappiamo utilizzare ed effettivamente utilizziamo i sensi nel cuore stesso del nostro credere, la liturgia, che ruolo essi hanno nel nostro celebrare la salvezza universale in Cristo.
Nelle nostre azioni liturgiche sono certamente presenti parole e idee, ma in esse entrano anche tutte le manifestazioni della corporeità. Vedere un gesto rituale, essere toccati da una mano benedicente, ascoltare la Parola di Dio, percepire l’odore di incenso, gustare il Pane eucaristico, sono modi per metterci in sintonia con il significato spirituale di ciò che celebriamo.
La questione è che troppo spesso noi sottovalutiamo queste percezioni sensoriali: ci sembra quasi che i segni liturgici che cogliamo con i sensi siano solo dei supporti arbitrari e materiali della grazia dei Sacramenti celebrati.
Così rischiamo di scordare che i Sacramenti donano la grazia anche mediante la loro efficacia simbolica.
I simboli sacramentali sono altrettanto autentici quanto lo è l’umanità di Cristo, unico vero Sacramento di salvezza: la percezione umana nei Sacramenti non è un accessorio in rapporto alla loro realtà di fede.
Purtroppo per secoli la Chiesa ha scelto di essere attenta soprattutto alla validità e alla liceità del gesto sacramentale, trascurando il valore antropologico dei segni liturgici e del loro trasmetterci la salvezza attraverso le nostre percezioni corporali.
Trascurando i cinque sensi, la liturgia ha perso e perde di realismo e di efficacia, il potere di evangelizzazione delle celebrazioni si spegne un po’ alla volta, e qualche fedele è perfino tentato di allontanarsi dai riti cristiani, preferendo piuttosto le pratiche superstiziose (queste, sì, ben attente ai sensi!).
Se il fondamento del nostro credere è un Dio che dialoga con noi, che assume in tutto la nostra carne, che si dona a noi in una vera logica di incarnazione, come possiamo celebrare una liturgia disincarnata, non radicata nella nostra corporeità, non autenticamente umana? Una liturgia lontana dal nostro vivere e dal nostro “sentire” corporeo.
E, infine, perché non ricordare il numero 7 della Costituzione conciliare sulla liturgia? Esso afferma che la santificazione dell’uomo è significata e realizzata per mezzo di segni “sensibili”. Quindi percepibili e vivibili attraverso i cinque sensi!
Forse vale la pena di condurre una piccola indagine sui sensi come “mezzi di comunicazione della salvezza” nella liturgia cristiana, sul loro uso e sul loro abuso, sulla loro efficienza e sul loro poco utilizzo, sul possibile cooperare di più sensi per darci celebrazioni più efficaci o comunque più complete.
È ciò che proveremo a fare su queste pagine nelle prossime settimane.
La vista nella liturgia
Ricordo di aver partecipato molti anni fa ad una Veglia pasquale in una chiesa ampia, più o meno, quanto due campi di pallacanestro, illuminata per l’occasione da un totale di otto neon! Dopo tanto tempo continuo a chiedermi come si possa celebrare coerentemente “Cristo, luce del mondo” in un’aula tanto buia.
Quella dell’illuminotecnica è forse la prima delle questioni che è opportuno affrontare quando si parla di rapporto tra liturgia e senso della vista.
Un’adeguata cura dell’illuminazione per favorire la percezione visiva durante le liturgie è un campo su cui tante nostre comunità devono ancora lavorare a lungo.
Una luce ideale dovrebbe anzitutto consentire ai fedeli di vedere chiaramente i luoghi dove si svolgono le celebrazioni: l’altare, l’ambone, la sede del sacerdote, ma anche, ad esempio, la zona antistante la porta del tempio durante i riti di accoglienza del Battesimo (questa – lo vedremo – è tra le zone più buie delle nostre chiese).
Certo “vedere le cose” durante la liturgia è fondamentale. Pensate solo al gesto dell’elevazione delle sacre Specie dopo la consacrazione della Messa.
Sono almeno ottocento anni che il sacerdote presenta l’Ostia e il Calice al popolo perché, vedendoli, adorino in essi Cristo Eucaristia, e in questi secoli ci sono stati in proposito anche degli abusi che la Chiesa è stata costretta a correggere, come la devozione popolare della “comunione oculare” (la pura e semplice visione del Pane e del Vino appena consacrati, che sostituiva a tutti gli effetti la comunione sacramentale) che, attorno al quattordicesimo secolo, spingeva frotte di fedeli a correre da una chiesa all’altra per “vedere Gesù” quante più volte possibile.
Arazzi, icone, vetrate, quadri d’altare, mosaici per secoli sono stati il punto di riferimento visivo delle chiese, ed anche le stesse celebrazioni erano ben piene di stimoli che, attraverso la vista, raggiungevano il cuore e l’anima. Basterebbe solo rammentare il grande e coloratissimo rotolo illuminato dell’Exsultet della Veglia pasquale di altre epoche.
Ma nelle chiese non ci sono solo simboli e gesti da vedere. È importante anche… vederci!
In qualunque luogo dove si raccolgono delle persone si dovrebbe creare una luce “d’ambiente” sempre accogliente e comunque funzionale. Le società autostradali hanno capito bene che i primi tratti di galleria devono essere illuminati con una intensità maggiore dei tratti seguenti, per non far sprofondare nel buio gli automobilisti che vi entrano. Ma lo stesso criterio dovrebbe valere anche per gli atri di tante chiese, dove gli occhi abbagliati di chi entra si ritrovano spesso in un buio pesto. E quello – notatelo – è proprio il posto che riempiamo di avvisi ai fedeli e dove affiggiamo manifesti e locandine.
E ualcosa di simile va detto a proposito della luce diretta sui banchi, che dovrebbe essere davvero sufficiente a leggere i sussidi liturgici che distribuiamo alla gente. Che, tra l’altro, sono spesso scritti con caratteri di stampa microscopici. Per favorire gli ipovedenti, il Real Istituto Nazionale per i Minorati della Vista inglese suggerisce lettere alte almeno 14 “punti tipografici”: i caratteri del nostro libretto parrocchiale dei canti quanto sono alti?
Secondo una ricerca dell’Istituto per la ricerca e la comunicazione della Stanford University americana, una persona di normale percezione oggi riceve l’83% dell’informazione per via visiva (contro, ad esempio, l’11% per via auditiva).
Un dato così rilevante da un lato ci deve far convinti dell’estrema importanza del senso della vista nelle nostre celebrazioni. Dall’altro ci costringe a dedicare alla vista anche la prossima puntata di questa piccola indagine.
La vista nella liturgia
L’illuminotecnica da sola non basta. Un’attenta cura della luce nelle nostre chiese spesso non è sufficiente a far vedere bene ciò che si compie in liturgia e, quindi, a coinvolgere attivamente la partecipazione dei fedeli presenti.
Pensate allo spezzare l’ostia prima della comunione, un gesto che per secoli ha dato il nome all’intera Messa. Per come viene abitualmente compiuto (mentre la gente recita l’Agnello di Dio, quasi nascondendo l’ostia tra le dita, e facendola… magicamente tornare intera dopo pochi secondi, al momento del Beati gli invitati alla cena del Signore), oggi esso non è praticamente visibile dai fedeli. Forse bisognerebbe eseguirlo con più calma, con più evidenza, sollevando bene il pane ed enfatizzando la frazione. Del resto, il messale prescrive che l’Agnello di Dio accompagni tutta la lunghezza del gesto e afferma con serietà che se la frazione del pane fosse troppo lunga (!) si può continuare a ripetere l’acclamazione fino al termine di essa. Evidentemente lo spezzare l’ostia che generalmente facciamo noi è qualcosa di molto diverso da quello che la Chiesa aveva previsto!
Anche le persone, in certi casi, dovrebbero poter essere visti meglio: la Domenica delle palme, tanto per fare un esempio, il sacerdote che benedice gli ulivi è praticamente invisibile in mezzo alla folla che lo circonda (per di più con i rami tra le mani!): è possibile che non si senta la necessità di una piccola pedana (bastano venti centimetri) su cui compiere il rito? Per non parlare della frequente mancanza di un ambone dove proclamare ben visibilmente il Vangelo dell’ingresso a Gerusalemme (con incenso, candelieri e tutto!).
Qualcuno afferma che questo tipo di carenze visive, queste difficoltà a far percepire attraverso la vista gesti e persone, potrebbero essere fronteggiate con delle riprese televisive a circuito chiuso. Beh, questa è una soluzione che tutti pensano possa permettersi la basilica di San Marco, ma che – stranamente – pochi di noi hanno mai preso in seria considerazione per le proprie realtà locali.
Realtà locali che, intanto, potrebbero cominciare a sondare la possibilità di utilizzare grandi schermi (videoproiettori? diapositive?) per accompagnare visivamente certi brani di omelia o per illustrare le intenzioni della preghiera dei fedeli.
E se attuare ciò può sembrare a qualcuno come muoversi in un campo minato (a causa dell’estrema prudenza che ufficialmente si riserva all’utilizzo di sussidi multimediali durante la liturgia), si possono almeno utilizzare i maxischermi per suggerire ai fedeli le parole dei canti da eseguire.
A parte la possibilità di garantire il sincronismo di tutta l’assemblea nel trovare un canto e nel seguirne il testo, è indubbio che guardare insieme e contemporaneamente la medesima realtà risponde a criteri di vera e attiva partecipazione comunitaria molto più che il perdersi, quasi privatamente, tra le pagine del proprio libretto dei canti.
Andando verso la conclusione, è il caso di notare che anche aspetti più generali della liturgia attengono alla percezione visiva. Sono gli occhi che vedono e apprezzano una chiesa pulita, una disposizione degli spazi ben curata, l’ordine complessivo, i colori che richiamano il periodo liturgico, gli addobbi, la suppellettile e i fiori disposti con gusto.
E, infine, memori del romantico legame “visivo” tra Tristano e Isotta, non possiamo non ricordare quanto sono importanti gli sguardi durante le celebrazioni: gli occhi sono lo specchio dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni, guardare o non guardare (o guardare con distacco) danno la misura della presenza spirituale, dell’attenzione alle persone, della nostra partecipazione o della nostra indifferenza. Soprattutto se il nostro ruolo nella liturgia è quello di presiederla in nome di Cristo. E questo durante l’omelia, le monizioni, i saluti liturgici.
Perché non si ripeta quell’episodio (inventato?) raccontato da un liturgista torinese, di un prete che augurava “Il Signore sia con voi” guardando fisso i fogli del proprio messale e a cui i fedeli rispondevano in coro “E con il tuo libro”!
L’udito nella liturgia
Credo che abbia cominciato il Presidente americano nei suoi discorsi alla Nazione. Poi abbiamo visto l’interprete gestuale anche durante la trasmissione televisiva degli auguri di fine anno del Capo dello Stato italiano. Invece, a parte qualche rara esperienza, nelle celebrazioni liturgiche non si vede mai, neanche nei grandissimi raduni con migliaia di fedeli, la figura di colui che, usando l’alfabeto dei sordomuti, “traduce” i testi e le preghiere per coloro che non godono del senso dell’udito.
Evidentemente l’interprete che “parla con le mani” è una ministerialità liturgica di cui nelle nostre chiese non sentiamo un gran bisogno.
Ma pare, purtroppo, che non facciamo neppure qualcosa per coloro che hanno solo qualche piccola difficoltà a sentirci (persone che, con l’aumentare dell’età media della popolazione, sono in netto aumento).
Basterebbe parlare con un tecnico e scegliere una zona della chiesa dove far regolare il volume dell’amplificazione ad un livello più alto, così da venire incontro alle esigenze dei fratelli e delle sorelle che hanno problemi di sordità. E, magari, segnalare quella zona con una scritta o un segnale idoneo.
Ma non vorrei che questa proposta a qualcuno sembri fantascienza: conosco chiese dove neppure chi ha un udito perfetto riesce a capire bene il senso di quello che si legge e si dice; altro che attenzione ai sordi!
Del resto, la cattiva amplificazione ecclesiale ha fatto da tempo il suo meritato ingresso in pubblicità. Tutti avrete di sicuro in mente i numerosi spot radio-televisivi ambientati in una chiesa, in cui la voce del sacerdote si sente ben deformata e distante… proprio come da tante parti avviene realmente.
Probabilmente gli amplificatori delle chiese sono gli unici apparecchi sonori al mondo di cui si utilizza un solo comando: l’interruttore per accenderli. Alzi la mano chi conosce celebrazioni liturgiche in cui una persona sia incaricata di sovrintendere continuativamente alla regolazione dei livelli sonori in base alle necessità.
Viene da pensare che alcune nostre comunità ecclesiali abbiamo dimenticato che l’udito è il più sviluppato dei sensi dopo la vista e che attraverso di esso passa più del dieci per cento di quanto percepiamo. E, quindi, anche più del dieci per cento del messaggio d’amore e dell’invito alla conversione che Dio ci rivolge mediante la liturgia.
Sia ben chiaro che spesso non è solo una questione di impianti di amplificazione (magari non appropriati all’ambiente) o di microfoni (che a volte falsano le voci). Talvolta è colpa dell’aula stessa, schiacciata dagli elevati rumori stradali esterni, o progettata senza tener il minimo conto dell’eco e del riverbero.
Quando, poi, non fanno la loro parte quei lettori che propongono le letture della Messa senza essersele preparate prima o con l’intonazione di chi legga i nomi di un elenco telefonico.
La comunicazione verbale, del resto, prevede codici vocali molto articolati e differenti. Sono necessarie modalità espressive diverse sulle base delle funzioni dei vari interventi previsti. Una cosa è proclamare un’orazione, altro è acclamare Dio, altro ancora è invitare tutti alla preghiera.
Per di più, bisogna stare molto attenti sia alle parole e ai suoni che “riempiono troppo” la celebrazione (monizioni superflue, canti inutilmente lunghi, voci dei concelebranti che si sovrappongono, ma anche certi fastidiosi chiacchiericci nell’aula o… nel presbiterio), sia a quei silenzi che restano inattesi e distraenti “spazi vuoti” piuttosto che necessari intervalli di raccoglimento.
L’odierno panorama culturale vuole, infine, che anche le previsioni del tempo e le notizie sul traffico siano trasmesse su insistenti sottofondi musicali. Mi chiedo allora se – con tutta la prudenza del caso – dei leggeri e ben progettati “cuscini” musicali non potrebbero enfatizzare ed arricchire la proclamazione di certi testi.
Detto solo questo della musica, evito di proposito di affrontare qui la questione del canto liturgico, affascinante mezzo sonoro di comunicazione e di partecipazione, sempre tentato dai due estremi del frastornare e dell’escludere.
Parola, musica, silenzio: il senso dell’udito ha una sua funzione indiscutibile nel credere e nel celebrare dei cristiani, chiamati ancora a dire come il giovane Samuele: “Parla, o Signore: il tuo servo ti ascolta”.
L’olfatto nella liturgia
Nell’antichità, Aristotele riteneva l’olfatto all’ultimo posto tra i sensi; e per Kant, nel diciottesimo secolo, esso era il meno utile alla conoscenza e il meno gratificante.
Probabilmente sbagliavano entrambi, perché l’olfatto ci passa un’infinità di informazioni. Anche nella liturgia.
Se fate un po’ mente locale, vi viene subito da pensare all’odore della cera, dei fiori, dell’incenso.
Tutti ricordano la poesia di Giuseppe Giusti in cui il poeta parla della basilica di Sant’Ambrogio di Milano, “quello vecchio, là, fuori di mano”, e descrive un vivido odore che gli pareva quello di candele di grasso animale, di sego, creando un singolare ambiente olfattivo in cui narrare la dolce preghiera di un drappello di soldati austroungarici.
Oggi la percezione odorosa della cera bruciata è quasi scomparsa dalle nostre chiese, un po’ per il numero inferiore di altari (e di candelieri) rispetto al passato, ma soprattutto perché le caratteristiche che più apprezziamo nei ceri odierni sono il loro essere inodori e senza fumo. Per questo motivo tante luci sono diventate elettriche (anche le candele votive: che orrore!) o si sono convertite all’olio paraffinato (che non sporca!).
Detto addio all’odore della cera, potrebbe essere il profumo dei fiori a dire gioia, festa, amore, omaggio nelle nostre celebrazioni.
Anche nell’addobbo floreale, però, i costi hanno cominciato a far sentire il loro peso, e così certe chiese pasquali piene di fiori che ti avvolgevano col profumo vitale della primavera si sono ridotte ad aule spoglie con un invisibile cestino floreale sull’altare a fare pendant con i candelieri!
Come odore “portante” dei luoghi sacri resterebbe l’incenso.
Dopo aver fatto una gran fatica a farsi accettare nella liturgia cristiana (fino al IV secolo era strettamente associato al culto pagano degli dei e dell’imperatore), l’incenso ha trovato il suo modo per dire, con il gesto, “Alleluia”, “Ti ringraziamo” oppure “Ricevi la nostra offerta”.
Peccato che dopo la riforma liturgica in molte comunità sia stato messo quasi in disparte. Visto che, praticamente, è obbligatorio solo per il rito delle esequie, per molti è associato solo ai momenti tristi, piuttosto che essere un segno di gioia solenne.
L’accantonamento dell’incenso non è un fatto culturale, come afferma qualcuno: riempiamo le nostre case di bastoncini di incensi orientali, di bruciatori per olii essenziali, addirittura di elettroemanatori simili a quelli contro le zanzare, e ci spruzziamo addosso profumi, acque di colonia e dopobarba; perché non dovremmo apprezzare un delicato profumo di incenso nelle nostre celebrazioni?
Forse la questione è che i nostri incensi sono spesso scelti con poca cura (se ne vendono con decine di aromi diversi e non dovrebbe essere difficile trovare odori leggeri e piacevoli) e usati “in quantità industriali” (se la vecchietta in prima fila inizia a tossire, ne abbiamo messo troppo nel turibolo!).
Alla fin fine, anche la mancanza di odori ben definiti può veicolare sensazioni piacevoli. Chi non ha mai percepito ed apprezzato quell’indefinibile odore di umido-fresco-polvere che ci accoglie in certe chiesette appartate, magari durante un caldo pomeriggio estivo? Anche quel “non odore” può darci il benvenuto nella casa della preghiera cristiana.
Gli odori, infatti, possono agire come segnale-stimolo, cioè provocare in noi delle reazioni spontanee (pensiamo all’odore di un buon cibo, che ci fa “venire l’acquolina in bocca”). L’odore di “chiesa estiva” risveglia in tanti antichi ricordi e vivide emozioni.
Viene qui a proposito una postilla: che fine ha fatto il “balsamo”, cioè quel profumo che il Vescovo, secondo il vecchio catechismo, mescolava al Crisma prima di benedire l’olio usato per l’Ordine Sacro, la Cresima e i riti post-battesimali?
Il rituale odierno parla della preparazione del Crisma con “aromi o sostanze profumate”, lasciando intendere che è l’aggiunta di tale profumo a distinguere quell’Olio da quelli usati soltanto per l’Unzione dei malati e prima del Battesimo.
Il Crisma insomma non dovrebbe solo ungere ma anche profumare abbondantemente le persone segnate con esso perché, dice la solenne preghiera di benedizione, “spandano il profumo di una vita santa”.
Eppure, oggi, io faccio una gran difficoltà a distinguere soltanto con l’olfatto il vasetto del Crisma da quello dell’Olio degli infermi e da quello dell’Olio dei catecumeni. Sarà solo il mio naso che, con l’età, sta perdendo la percezione degli odori?
Il tatto nella liturgia
Il vecchio Isacco è cieco e la moglie Rebecca, che ha sempre preferito il secondogenito Giacobbe, spinge il figlio a farsi benedire dal padre morente dopo averlo “truccato” con una pelle di montone, in modo da farlo sembrare peloso come il primogenito Esaù. Isacco si deve fidare solo del senso del tatto e viene ingannato (cfr Genesi 27).
La storia biblica di Giacobbe e della benedizione che coprirà lui e i popoli discendenti da lui sembra iniziare nel segno del tatto (e parliamo di quel Giacobbe che aveva acquistato il diritto di primogenitura perché il fratello Esaù vi aveva rinunciato, preferendo piuttosto un piatto di lenticchie: un vizio, un eccesso del senso del gusto!).
Il controllo costante della posizione del nostro corpo, la sensibilità al calore, alla pressione e ai liquidi, la percezione delle reazioni dolorose sono le componenti più importanti del tatto. Strette di mano, carezze, abbracci sono le più abituali comunicazioni con i nostri simili che vengono veicolate da esso.
Nella liturgia viene subito in mente la stretta di mano che tutti (tutti?), più o meno entusiasticamente, si scambiano come segno di pace prima di avvicinarsi alla mensa eucaristica, o il bacio commosso che accordiamo alla croce nella celebrazione del Venerdì santo. Ma è tutto qui?
Per il tatto bisognerebbe riprendere pari pari tutte le considerazioni che abbiamo già fatto a proposito di una liturgia troppo incorporea, che privilegia la parola e che soffoca il contatto (“con-tatto”!) fisico, che scorda come la celebrazione sia più “urgìa” (cioè “gesto”, come in “drammaturgia”) che “logìa” (cioè “discorso”, come in “teologia”).
Non è il caso di ripetersi, ma le nostre comunità cristiane dovrebbero iniziare ad interrogarsi sul perché tante assemblee preferiscano recitare il Padre nostro formando una ininterrotta catena di mani, o perché siano affascinate da incontri di preghiera in cui l’imposizione delle mani sul capo per invocare la guarigione è una vera, prolungata carezza della testa e non un veloce lambire il cuoio capelluto senza alcun contatto con esso.
Una malintesa stilizzazione (“Tanto è solo un simbolo…”) ha fatto svaporare il realismo umano di tanti gesti liturgici che coinvolgono il tatto. In questo modo, a titolo d’esempio, l’immersione completa nell’acqua del Battesimo (segno palese di lavacro generale, di immersione totale in Cristo morto e risorto, di attraversamento verso l’altra sponda) si è trasformato in un risicato versare poche gocce sulla fronte del bambino. E il rito dell’aspersione con l’acqua benedetta, col passare dei secoli, ha visto inventare arnesi che spruzzano sui presenti sempre meno liquido (altro che un frondoso ramo di issopo inzuppato d’acqua!).
Più in generale, però, mi sembra di poter fare un’altra, più ampia considerazione di ordine generale sulla percezione tattile in liturgia.
I fast-food delle note catene internazionali (a parte ciò che ti danno da mangiare) hanno caratteristiche precise e identiche in tutto il mondo: le sedie sono scomode e strette, i tavoli di nudo marmo, i pavimenti sono spesso sporchi e scivolosi, i rumori degli avventori e il sottofondo musicale pop possono infastidire e assordare, i porta-menù hanno la copertina che ti fa rizzare i capelli se solo la strusci con un’unghia, i neon sul soffitto ti abbagliano e ti confondono, il personale sembra snobbarti (in fondo si tratta di un self-service e devi imparare a servirti da te!), gli ambienti paiono bollenti d’estate e gelati d’inverno.
Eppure tutto ciò ha una sua precisa logica: i gestori vogliono che si consumi in fretta il pasto e si vada subito via!
In certi ristoranti molto ricercati – invece – dove la direzione vuole “coccolare” il cliente e spingerlo a restare più tempo possibile e a tornare spesso, ci sono sedie larghe e imbottite, tavoli apparecchiati e forniti di ogni necessario, moquette da affondarci i piedi, parole sussurrate e musica dolce di sottofondo (magari dal vivo), menù rilegati in pelle, luci soffuse, addetti che fanno di tutto per compiacerti, ed aria condizionata.
Io, che in vita mia ho visto una sola chiesa con la moquette per terra e che sono stufo di libretti dei canti con la copertina “da sgrisoli”, penso di sapere a quale dei due modelli di percezione tattile che ho citato, a quale esempio di confort e di vivibilità somigliano tante delle nostre chiese.
Il gusto nella liturgia
La prima esperienza liturgica che ha coinvolto tutti coloro che oggi hanno almeno una quarantina d’anni è stata una sensazione gustativa. Prima ancora di aver potuto vedere un rito o di aver potuto ascoltare un’orazione, quei bimbi sono stati letteralmente turbati da un gesto del Battesimo preconciliare: durante la lunga sequenza degli esorcismi all’inizio della celebrazione, il sacerdote metteva un pizzico di sale nella bocca del neonato, dicendogli, più o meno, “Ricevi il sale della sapienza: ti giovi per la vita eterna”.
Dunque il gusto è stato il primo senso di noi bambini direttamente coinvolto nella liturgia. E le disgustate boccacce che seguivano a quel crudele esorcismo sono stati i nostri primi atteggiamenti di risposta ad una percezione sensoriale in ambito liturgico.
È importante fare questa considerazione iniziale, visto che il gusto può sembrare coinvolto solo marginalmente nella liturgia, e soltanto per ciò che concerne più da vicino la partecipazione all’Eucaristia.
Invece, i sapori hanno una loro parte sostanziale nel nostro percepire l’atto liturgico e nella nostra partecipazione ad esso.
Anzi, a ben vedere, il senso del gusto può essere addirittura considerato il fondamento storico-antropologico del gesto più alto della ritualità cristiana: l’Eucaristia stessa.
Contrariamente ad altre specie animali il gusto dell’essere umano non riesce a riconoscere al primo boccone se un cibo è buono o se è velenoso. È proprio questo nostro essere disarmati davanti ad un eventuale pericolo che si può celare nel cibo ha fatto nascere il “rito sociale” di mangiare dallo stesso piatto e di bere dalla stessa ciotola, un gesto diventato col tempo dimostrazione di fiducia, di fratellanza e di condivisione.
Insomma, possiamo affermare che le lontane radici del rito cristiano dell’Eucaristia risalgano proprio a una questione legata al nostro senso del gusto come canale per ottenere, in forma collettiva, informazioni utili su ciò che è buono da mangiare.
Queste considerazioni, però, non debbono sminuire i messaggi sensoriali che il gusto trasmette ai fedeli al momento di partecipare al banchetto eucaristico.
Sono passati quasi quarant’anni da quando la Terza Istruzione vaticana per l’applicazione della riforma liturgica conciliare invitava a curare di più “il colore, il gusto e la consistenza del pane eucaristico, evitando un pane dal gusto di pasta cotta a metà, un pane indurito e immangiabile” (cfr n. 5).
Tuttavia sono quarant’anni trascorsi praticamente invano, se è vero che le nostre ostie hanno ancora lo spessore e il sapore del… cartoncino. E dire che per quasi tutto il primo millennio il pane eucaristico non ha differito in nulla dal pane comune (che era ammesso da noi almeno fino al Concilio di Firenze, nel 1439, e lo è ancora nella Chiesa d’Oriente).
Questioni del genere, per fortuna, non sono sorte con il gusto del Vino eucaristico, anche se oggi si preferisce sceglierlo bianco piuttosto che rosso, con buona pace delle nette differenze di sapore che i sommelier si ostinano a spiegarci. Così non si lasciano tracce sui tessuti con i quali si asciuga il calice al termine della Messa, ma si lascia cadere il chiaro simbolismo del vino rosso!
Sembra quasi che i cristiani d’Occidente abbiano smarrito la fisionomia del reale mangiare e bere nell’Eucaristia: i primi nomi della Messa (“frazione del pane”, “cena del Signore”) esprimevano proprio questa caratteristica e questo significato, e sarebbe un peccato se si indebolisse la prospettiva del banchetto comune tra fratelli radunati in Cristo.
Un banchetto comune che una volta, in certe occasioni, non comprendeva solo il Pane e il Vino: nella tradizione apostolica, dopo la comunione, la liturgia dell’iniziazione cristiana prescriveva che si offrisse al nuovo fedele una tazza di latte e miele. Gustare questi due elementi, di chiara radice biblica, diceva la partecipazione vitale all’abbondanza della grazia ricevuta nel Sacramento.
Noi usiamo spesso modi di dire che hanno diretta attinenza col senso del gusto (uno sguardo può essere “dolce” e un giudizio “acido”), eppure nella nostra esperienza liturgica rischiamo di sottovalutare i sapori.
Forse, per ciò che concerne l’approccio al senso del gusto nei riti sacri i cristiani dovrebbero agire con più “sapienza”. Parola che significa “avere il sapore di…”.
di Gigi Malavolta tratto da:
http://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6988%3Acelebrare-con-i-cinque-sensi&catid=170%3Aquestioni-liturgiche&Itemid=1