Fondamenti teologici e liturgici dell’architettura sacra

Uwe Michael Lang, L'arte è sempre un dono.

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Uwe Michael Lang, L’arte è sempre un dono.  Fondamenti teologici e liturgici dell’architettura sacra                                        

Pubblicato sull’ «L’Osservatore Romano», 10-III-2010, p. 5

Nel suo esistere, l’uomo vive in due coordinate fondamentali: lo spazio e il tempo, due realtà che non si costruiscono, ma che gli sono date. In altre parole, l’uomo è legato allo spazio e al tempo in tutte le sue azioni, e lo è anche nella preghiera che rivolge a Dio. Quando si invoca Dio, la preghiera ha bisogno, per così dire, di essere incarnata e di conseguenza anche il culto cristiano richiede un luogo, dove si può realizzare come rito sacro.

Tale luogo non è il corrispettivo del tempio pagano nella Grecia antica, dove la cella era considerata l’abitazione della divinità. Come dice san Paolo agli Ateniesi che «Dio non abita in templi costruiti dall’uomo» (Atti degli Apostoli, 17, 24). C’è un rapporto stretto fra il luogo del culto cristiano e la tenda del convegno, ovvero il Tempio di Gerusalemme, che è concepito come luogo dove il Dio trascendente si rende presente nella sua gloria (si veda, ad esempio Esodo, 25, 22 e 40, 34). Comunque, già Salomone, dopo avere costruito il Tempio di Gerusalemme, esclama: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!» (1 Re, 8, 27).

Nell’Antico Testamento si osserva un movimento verso una spiritualizzazione del culto, che si riflette anche nel canto dei serafini nel libro del profeta Isaia: «Tutta la terra è piena della sua gloria» (Isaia, 6, 3; cfr. Geremia, 23, 24; Salmi, 139, 1-18; Sapienza, 1, 7) – un passo che è stato incluso nel Sanctus della liturgia eucaristica. Pertanto, tutta la terra è piena della presenza di Dio e da Lui affidata agli uomini (cfr. Vincenzo Gatti, Liturgia e arte. I luoghi della celebrazione, Bologna, EDB, 2001, ristampa 2005, pp. 49-50 e 67-68).

Nel Vangelo secondo Giovanni, Gesù durante il suo incontro con la donna di Samaria dichiara che «è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori» (Giovanni, 4, 23). Bisogna tenere conto che ci sono vari livelli di significato: nel contesto storico, il culto cristiano è contrapposto al culto dei Samaritani e degli Ebrei, perché esso è «in spirito», cioè non è limitato a un singolo santuario, come il monte Garizim per i samaritani e il tempio di Gerusalemme per gli Ebrei.

Questo non significa che, alla luce del Vangelo, non ci dovrebbero essere riti e cerimonie, nessun culto pubblico o nessuno edificio sacro. Una tal conclusione sarebbe sbagliata, fosse soltanto perché quasi duemila anni di tradizione cristiana parlano in senso contrario. Gesù non ha detto alla donna samaritana che non ci dovrebbero essere luoghi ed edifici per il culto nella Nuova Alleanza; allo stesso modo, nella profezia sulla distruzione del Tempio, non afferma che non ci debba essere più alcuna casa costruita in onore di Dio, ma piuttosto che ci debbano essere molte case.

John Henry Newman, il grande teologo inglese convertito, ha espresso questa verità  in un’omelia: «La gloria del Vangelo non è l’abolizione dei riti, ma la loro diffusione; non la loro assenza, ma la loro presenza viva ed efficace per la grazia di Cristo». (Parochial and Plain Sermons, San Francisco, Ignatius Press, 1997, vi, 19: «The Gospel Palaces», p. 1355).

Nel suo libro fondamentale sullo spirito della Liturgia, l’allora cardinale Joseph Ratzinger, metteva in relazione «il nuovo universalismo» del culto «in spirito e verità» della Nuova Alleanza, che non è legato a un luogo esclusivo, e la profezia di Gesù sulla distruzione del tempio: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Matteo, 26, 61). Riprendendo la precisazione dell’evangelista Giovanni: «Egli parlava del tempio del suo corpo» (Giovanni, 2, 21), Ratzinger prendeva le parole di Gesù come «una profezia della croce; la fine della sua vita terrena sarà al tempo stesso la fine del tempio: è questo ciò che egli lascia intendere». Allo stesso tempo, è anche una profezia della sua Risurrezione, con la quale «comincerà il nuovo tempio: il corpo vivente di Gesù Cristo, che allora sarà al cospetto di Dio e che sarà il luogo di ogni culto. In questo corpo egli abbraccia tutti gli uomini; non è la tenda eretta da mani d’uomo, è il luogo della vera adorazione di Dio, che dissolve le tenebre e le sostituisce con la realtà». Questa profezia quindi diventa eucaristica, perché «vi si annuncia il mistero del corpo di Cristo, sacrificato e proprio per questo vivente, che si comunica a noi e conduce in tal modo al legame reale con il Dio vivente» (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001, pp. 39-40).

Cristo stesso, il suo corpo vivo, risorto e glorificato, è il nuovo tempio dove Dio dimora e dove si svolge il suo culto «in spirito e verità». Il vero tempio in cui Dio abita è il corpo che la Vergine Maria, per opera dello Spirito Santo, offriva al Verbo di Dio, Gesù Cristo. Come scrive san Paolo ai Colossesi: «È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza» (2, 9-10). Poi, per partecipazione, in forza del Battesimo, anche il corpo del cristiano diventa tempio di Dio.

Christus totus, per usare una frase cara a sant’Agostino, il Cristo intero è il vero luogo di culto cristiano, cioè Cristo in quanto capo e noi in quanto membra del suo corpo mistico. I fedeli che si riuniscono in uno stesso luogo per il culto divino costituiscono le «pietre vive», messe insieme «per la costruzione di un edificio spirituale» (1 Pietro, 2, 4-5). Infatti, è significativo che la parola che prima indicava l’azione del riunirsi dei cristiani, cioè ecclesia, è passata a indicare anche il luogo stesso in cui la riunione si realizza.

Perciò, possiamo dire che la liturgia stessa, la solenne celebrazione del mistero pasquale della passione, morte e risurrezione del Signore, è costitutiva del tempio cristiano, inteso come luogo della presenza divina. In questo senso Benedetto XVI scrive nella sua Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007): «Lo scopo dell’architettura sacra è di offrire alla Chiesa che celebra i misteri della fede, in particolare l’Eucaristia, lo spazio più adatto all’adeguato svolgimento della sua azione liturgica. Infatti, la natura del tempio cristiano è definita dall’azione liturgica stessa» (n. 41).

Va riletta anche l’apposita sezione del Catechismo della Chiesa cattolica. Questo documento autorevole del magistero insiste che le chiese (come edifici) «non sono luoghi di riunione», ma «dimora di Dio con gli uomini riconciliati e uniti in Cristo» (n. 1180). Questo passo ricorda inoltre il fatto che la liturgia eucaristica è per gli «iniziati» e per questo motivo in molte tradizioni cristiane, soprattutto in Oriente, si conclude «la liturgia della Parola» con il congedo dei catecumeni, dei penitenti e delle altre persone che non possono essere ammessi alla parte più sacra della celebrazione liturgica.

Ancora più  specifico è il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 2005. In risposta alla domanda «Che cosa sono gli edifici sacri?» (n. 245), il Compendio dice: «Essi sono le case di Dio, simbolo della Chiesa che vive in quel luogo, nonché della dimora celeste. Sono luoghi di preghiera, nei quali la Chiesa celebra soprattutto l’Eucaristia e adora Cristo realmente presente nel tabernacolo».

L’architettura e l’arte non compiono una funzione puramente decorativa, sono piuttosto parti integranti del culto. Il punto di partenza per costruire le chiese deve essere uno teologico e liturgico, e da questo risulta una grande responsabilità sia dei progettisti sia dei committenti. Oggi si sente l’esigenza urgente di una formazione adeguata che va al di là di una visione solo «normativa» della progettazione. Nel suo libro sopra citato Ratzinger ha dato voce al desiderio di un’arte «rinnovata nella fede», ma ha ricordato anche che l’arte – come la liturgia – «non può essere prodotta, così come si commissionano, si producono delle apparecchiature tecniche. Essa è sempre un dono». Le epoche di grande creatività artistica nella storia della Chiesa sono state contrassegnate da «una fede capace di vedere». Se giungiamo di nuovo a questa, «anche l’arte trova la sua giusta espressione».

Fonte: collationes.org

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