L’ornamento e l’architettura nelle chiese contemporanee

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di Leonardo Servadio

L’elaborazione di un buon progetto di architettura “è un’operazione complicata e complessa nella quale, oltre alle convergenze tra le vedute dell’architetto e quelle del committente, è necessario affrontare e risolvere tutti gli aspetti dell’opera sin dalla fase iniziale. E tra questi deve essere contemplato anche l’ornamento: non può esserci un prima e un dopo. Questo vale ancora di più per un edificio cultuale, nel quale l’architettura, l’apparato iconografico e l’ornamento liturgico non possono che rientrare in un discorso unitario”. Così scrive Danilo Lisi nell’introdurre il volume da lui curato L’ornamento liturgico e l’architettura cultuale (Gangemi, pagine 144, euro 28,00).

Ora che siamo lontani dai furori ideologici che hanno accompagnatola storia recente anche dell’architettura, in cui termini quali “bellezza” avevano assunto la veste di qualcosa di vecchio e consunto, un orpello che appesantiva inutilmente la sveltezza e l’efficienza della funzionalità e dell’economia spaziale, l’opera di Lisi giunge come espressione di un momento di ripensamento fecondo sul tema, e giustamente l’Autore evidenzia l’inestricabile congruità di questo col complesso della progettualità. L’edificio, e tanto più il principe degli edifici, ovvero quello dedicato al culto, non può essere figlio di una semplice addizione che avviene per passi aggiunti in modo asincrono e scoordinato: veste e struttura, funzioni e dimensioni compongono un tutt’uno che va pensato in quanto tale, per cui ognuno dei differenti aspetti in cui l’edificio si manifesta sgorgano l’uno dell’altro seguendo una logica unitaria tanto quanto articolata. Ed è questa unitarietà articolata che diviene espressione di bellezza e assume i toni dell’ineffabile laddove supera la mera ratio poiché giunge ad attingere alle capacità evocative che in ognuno stimolano pensieri e riflessi suoi propri, pur tutti attingenti alla sfera dell’alterità che, pur esprimendosi attraverso il mondo materiale, indica la via che va oltre. È qui che si trova il reame della poesia, ch’è quanto meglio si approssima alla spiritualità propria dell’edificio dedicato al culto.

Gli esempi presi in esame nel volume, e trattati da diversi autori (U. La Pietra, M. A. Crippa, P. Krecic, C. Helmenstein, T. Proietti, E. Pontiggia, A. Gerhards, T. Grisi, F. Leto, B. Servino, R. Pagliarani, G. Cassese) spaziano su diverse opere e studi contemporanei in cui si evidenzia la varietà possibile, la diversità degli approcci nei quali i tanti autori desiderano riconoscere una equipotente capacità comunicativa. Le opere di Gaudí o quelle di Plecnik, quelle di Rudolf Schwarz, di Carlo Scarpa o di Costantino Ruggeri, per citare solo alcuni degli artefici presi in esame dai diversi contributi che compongono il volume, paiono a volte distanti anni luce tra loro, e riflettono, pur nel tempo relativamente ristretto del XX secolo, temperie culturali variate e contesti sociali e tradizioni non omogenei. Ma ovunque si ravvisa la ricerca di quel “di più” che supera il campo dell’utilità e della focalizzazione su una specifica finalità, per accennare al volo sulle ali della libertà. Così, scorrendo le pagine del libro si può restare sconcertati per la eterogeneità delle forme e dei disegni che si susseguono, e per la distanza che certuni approcci presentano rispetto ad altri.

Che c’entrano i progetti irrealizzati di un Calatrava, caratterizzati da slanci al limite del possibile, con quelli misurati e ponderati, limati e ritmati nelle proporzioni rigorose del “numero plastico” tratteggiato da Van der Laan? Eppure sono tutti tentativi di dire qualcosa di più, e di meglio, e di farlo con rispetto verso la storia, verso il luogo, verso le persone cui l’edificio è destinato.

Significativo è che a chiusura del volume si presenta una delle più recenti chiese costruite in Italia, quella di Sant’Ignazio di Laconi a Olbia, vincitrice dell’ultima tornata dei “Progetti pilota” banditi dalla Conferenza Episcopale Italiana. Quel progetto è firmato da Francesca Leto, la quale specifica: “La chiesa di Sant’Ignazio è stata realizzata nell’inscindibile legame tra le tre componenti del progetto, liturgia, architettura, arte, tanto da non poter riferire un aspetto o un’opera a un solo autore”. Così anche la Leto si riferisce al concetto fondamentale della complementarietà tra le componenti del progetto, tra queste includendo quello liturgico molto facilmente lasciato in secondo piano da altri, e pertanto anche evidenzia la necessaria collaborazione tra i diversi artefici. Collaborazione che non può non innestarsi su un’intesa previa tra le persone, su una comunione di intenti che – guarda caso – è proprio quella che si compone nella “chiesa”, ovvero nella comunità.

Qui sta la differenza tra quanto si richiede oggi e quanto si realizzò nelle gradi epoche del passato. Se l’artefice primeggiava nel Rinascimento con le sue ardite soluzioni, oggi si richiede un lavoro di squadra. Qualcosa che da tempo si dimostra vero in campo scientifico e che ora si profila importante anche in campo architettonico.