Architettura e liturgia. I tanti punti interrogativi

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Madonna dei Poveri, Milano. Foto di Paolo Monti - Disponibile nella biblioteca digitale BEIC e caricato in collaborazione con Fondazione BEIC.L'immagine proviene dal Fondo Paolo Monti, di proprietà BEIC e collocato presso il Civico Archivio Fotografico di Milano., CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org

di Stefano Mavilio

Difficile il compito di recensire un libro come Architettura e liturgia. Intese oltre i malintesi, dell’amico Servadio, Tab Edizioni. In primis, perché rimane il pudore di commentare il lavoro di un amico; in secundis: cosa dire di un libro nel quale è già scritto tutto? Ben documentato, ordinato secondo le volontà delle linee di ricerca post-conciliari, perfetto nella descrizione dei poli liturgici; addirittura necessario il capitolo 2, del rapporto fra chiesa e città, eppure così composto da sollecitare dubbi, domande, istanze e perplessità.

Leonardo Servadio, “Architettura e liturgia. Intese oltre i malintesi”, prefazione di Giancarlo Santi, introduzione di Paolo Portoghesi, postfazioni di don Paolo Tomatis e don Valerio Pennasso (TAB, pagine 192, euro 20,00)

Inizierei dalle domande nascoste fra le pagine, vuoi per mano dello stesso autore, vuoi per mano degli ottimi commentatori in prefazione e postfazione.

Quali le domande? Inizierei da don Giancarlo Santi, vero interprete della riforma liturgica nel campo dell’architettura, indimenticato promotore culturale, instancabile nel prendere iniziative fino ad allora mai intraprese. Due in realtà le domande poste da don Giancarlo, domande alle quali egli stesso non risponde.

Vi è coerenza fra le indicazioni date ai progettisti dalle commissioni diocesane?”

Se è vero che non ci è dato conoscere le attività delle commissioni diocesane, posso dire per esperienza personale che dette commissioni, salvo forse rare eccezioni, non danno indicazioni. Salvo, recentemente, nel caso dei concorsi per le nuove chiese, proporre capitolati per lo più noiosi e sempre uguali, contraddicendo il dettato della “Nota pastorale” che vuole chiese che siano radicate nel territorio “il che esige un discernimento della comunità a cui il nuovo edifico è destinato.” A nulla valgono dunque generiche indicazioni che si perpetuano più o meno in fotocopia.

Vi è coerenza fra le linee guida e i progetti realizzati in Italia dal 1993 ad oggi?”

Ancora una volta si è costretti alla polemica. Per volere della stessa Commissione Episcopale per la Liturgia che redasse la Nota pastorale del ’93, si diedero indicazioni assai generiche, affatto diverse dalla maniacale e quasi ossessiva tassonomia del Borromeo. La Nota pastorale, era solito dire don Giancarlo, non impone: suggerisce – ove invece qualche affermazione apodittica avrebbe giovato, quanto meno a tenere a freno certe fantasie sfrenate dei progettisti e certi loro esercizi tipologici che, nonostante siano passati molti anni dalla redazione della Nota e ancor più dal Concilio Vaticano II, ancora oggi ci è dato trovarci a sopportare. Se è vero che “è l’azione rituale a determinare lo spazio liturgico” come rammenta don Giuseppe Busani, a nulla valgono speculazioni sul tipo e sulla forma. “Qual è la forma della preghiera” si chiedeva retoricamente Klemens Richter citando Justus Dahinden?

A questa domanda nessun architetto sa rispondere, purtroppo. E ancora al sottoscritto rimane difficile accettare chiese quadrate, ellittiche e simili, dove più che la processio si impone la statio. Verrebbe da dare ragione al giovane Michael Lang, che in Rivolti verso il Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica poneva chiaramente la questione del procedere insieme – il Capo e le Membra del Corpo Mistico – verso l’Altrove, la qual cosa poneva di fatto l’istanza mai risolta del versus populi, versus Dei.

Qui ancora una domanda, posta nella bella prefazione al volume Architettura e liturgia dal professor Portoghesi: “Come si può oggi, progettando una chiesa, affrontare il problema del rendere visibile l’invisibile?” Ancora una volta, per esperienza personale, posso ben dire che pochi architetti possono rispondere a questa domanda e ancor meno i tecnici diocesani, i sacerdoti e perfino i Vescovi. Da quando il Sacro è scomparso dall’orizzonte progettuale, sono scomparsi parimenti l’Altrove e la metafisica del progetto.

A questo proposito, relativamente ai dubbi, alle domande, alle istanze e perplessità, posso solo rammentare come, a fronte dell’istanza secondo la quale “all’inizio non c’è che spazio mondano e dopo null’altro rimane che spazio mondano”, riporto quanto scriveva padre Marie-Alain Couturier, in L’Art Sacré nn. 11-17, giugno agosto 1953: “Un edificio veramente sacro, non è un edificio profano reso sacro da un rito consacratorio o per il suo uso successivo: un edificio sacro lo è già sostanzialmente in relazione alla qualità stessa delle sue forme.” Giacché, come recita Sapienza, 11-20, “Tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso.”

Terminerei questa recensione con le parole di Le Corbusier: ” Una chiesa è il Forum del buon Dio. Si entra soli o insieme ad altri e ci si trova davanti agli strumenti del culto: l’altare e le proporzioni.”

La qual cosa accontenterebbe mons. Crispino Valenziano, che riconosceva la centralità dell’altare “senza verso”, e sant’Agostino per il quale “la musica e l’architettura sono sorelle, entrambe figlie del Numero e specchio dell’armonia eterna.” Senza altare né proporzioni non avremmo altro che sciocche invenzioni, secondo è scritto in Tao Te Ching: “Quanto più ci sono operai ingegnosi, tanto più vengono prodotti oggetti bizzarri.”